Sergio Calligaris: Pianista e Compositore
Interviste
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Il pensiero del musicista dalle sue parole

CD CLASSICA, Anno 9 - N.85
(Firenze City Magazine Editrice)
Settembre 1995 (pag.16):

Sergio Calligaris:
Un colloquio con il compositore argentino,

di Gregorio Nardi

Il mio primo contatto con Sergio Calligaris data dal 1979, quando alcuni amici che conoscevano il mio interesse per la musica contemporanea mi inviarono il Quaderno pianistico di Renzo, un lavoro che - come vedremo durante l'intervista che segue - tiene un posto di particolare importanza nella carriera del compositore argentino; e che, eseguito per quasi mille volte, ha assicurato al maestro la fama che lo accompagna. La mia esperienza mi portava piuttosto a prediligere il delicato colloquiare degli Epigrams di Ferneyhough, l'ironia multicolore della Sequenza di Berio, il ritmo frizzante e spontaneo di Donatoni, la melodia fascinosa di Barraqué o il formidabile apparato della scrittura concertistica di Carter. Rimasi stupito a contatto dell'estremo rigore formale di Calligaris, dal suo contrappunto classico, dal suo pianismo strettamente digitale. È stato dunque con gioia che ho potuto chiedere spiegazione dei miei dubbi di allora. Le risposte non si sono fatte attendere.

"Il mio primo vero e proprio insegnante, spiega Calligaris, è stato un sacerdote, padre Machado, della scuola di Hindemith: una scrittura estremamente rigorosa, contrappuntistica, e un grande uso dell'armonia per quarte; non necessariamente l'accordo mistico di Scriabin, ma quarte eccedenti o giuste, mai diminuite. Di Rachmaninov, invece, ho preso la concezione della forma. Quando ho scritto il mio Concerto per pianoforte e orchestra non potevo comporre un piccolo, misero concerto, fatto così, tanto per scrivere. Concepisco il Concerto come un grande evento sinfonico e spettacolare; che non vuol dire di spettacolo, ma di grande impegno. Dopo i lavori di Rachmaninov e Prokoviev, non si può pensare a un pezzo striminzito: da tali autori credo di aver derivato un istinto per il pianismo di grande comunicativa, non necessariamente d'effetto, ma evidentemente molto difficile, non difficoltà fine a se stessa, piuttosto ricerca di una grande potenza sonora. La mia concezione è neoclassica, non sono un neoromantico. Semmai, di romantico, ho la tendenza a essere comunicativo, perché lo sono di natura, e la musica rispecchia l'individuo: non sono un introverso, quando scrivo ho bisogno di comunicare e sentire subito il responso del mio interlocutore, il pubblico. Ho passato un lungo periodo senza comporre, quando tenevo concerti come pianista, dal '54 - avevo tredici anni - al '79, l'anno del Quaderno pianistico di Renzo. Con tale esperienza, ho sviluppato un sesto senso per quel che 'funziona'. Ciò che fa fallire gran parte della musica contemporanea di fronte al pubblico, non è la sua complessità - è talmente semplice, non c'è alcun contenuto, niente, le armonie non esistono, il ritmo è una cosa aleatoria - perché Rachmaninov, Prokoviev, Ravel, Hindemith sono complessi, non la musica d'avanguardia. Questa è volutamente difficile, senza logica, senza ordine; nemmeno l'autore si accorge quando si fa qualcosa di diverso da ciò che è scritto".

- Forse il pubblico, che non è abituato a fare il minimo sforzo. Avrei detto che, al contrario, i nostri contemporanei sono costretti ad essere pienamente coscienti di ciò che ricercano e di come scrivono.

Tanto è inutile che scrivano. Potrebbero fare altri segni: io comunque non li capisco, non ho tempo di studiarli. Ho un disperato bisogno della forma, dello schema, dei contrasti; perché il successo di un pezzo con il pubblico - e io il pubblico lo rispetto - nasce da precise esigenze. Anch'io, quando sento un pezzo che è amorfo, mi annoio; e non voglio annoiarmi. Voglio contrasti, equilibrio architettonico tra masse di diverso carattere. Il primo movimento del mio Concerto è di carattere espositivo: presenta sei temi fondamentali e quattro idee secondarie, che userò 'metamorfosate' più tardi. Per lo Scherzo mi sono ispirato a quello della Settima Sinfonia di Beethoven, con doppio trio. Anche il breve interludio che lega lo Scherzo al primo movimento altro non è che un'esposizione abbreviata del tema fondamentale dell'Adagio. Lì sembra un'idea secondaria di transizione; ma non lo è, ha una sua funzione. Non uso mai battute di passaggio fini a se stesse: sono sempre la speculazione contrappuntistica di qualcosa che avverrà o che è già avvenuta. Nel terzo movimento presento un tema che potrebbe ricordare non lo stile ma il pianismo di Bartok, perché è molto percussivo.

- In effetti, trovo che lo stile sia radicalmente diverso: Bartok adora spezzare - o meglio: aprire la forma a partire dall'esigenza del materiale; in modo che i temi conducano la costruzione, e non ne vengano mai costretti.

La mia struttura è esattamente simmetrica. Io credo nella simmetria; non c'è forma senza ritorno di qualcosa che c'è stato prima, in modo che non ci si dimentichi di ciò che si è sentito. Anche i ritornelli non sono una cosa accademica, ma logica. Per fare un finale più libero, quasi a fantasia, ho dovuto essere più rigoroso prima. La continua libertà si trasforma in anarchia, e io non amo l'anarchia, almeno in musica. Amo riutilizzare le forme acquisite: il Quodlibet, il contrappunto, un'armonia che sembri tonale deve esserlo, altrimenti stanca. Deve esserci il senso di tensione e distensione. Stimo Roussel, ma talvolta è un poco amorfo armonicamente, perché non risolve mai, come una fisarmonica. Allora mi stanco perché non mi emoziona, non arrivo a un punto culminante o di rilassamento, sia pure dissonante. Diventa una landa deserta, sempre uguale, nasce assuefazione. Da quando analizzavo con il mio maestro il Primo Corale di Franck, ho amato la bellezza dell'armonia, degli accordi, non importa quanto siano alterati. In un altro punto concordo con Rachmaninov, la melodia deve essere bella e riconoscibile, sennò è un fallimento.

- Mi par di ricordare che, malgrado tutto, non pochi temi oggi famosi sono stati accolti, con la massima indifferenza. Forse il pubblico non comprende sempre ciò che può amare, forse lo si può guidare fuori dalle abitudini e - mi permetta - dall'ignoranza.

Un tema che si ricorda deve avere una forma dove si riconoscano un inizio e una fine; non perché risolva in maniera ovvia, ma perché ha una linea. Il fascino di un tema è come quello di una persona, non si può inventarlo, o c'è o non c'è. Si incontrano persone colte molto noiose e persone quasi analfabete molto affascinanti: per il timbro della voce, per l'aspetto fisico. Anche i temi riusciti non si spiegano: è inutile la scelta del contrappunto, la bellezza dell'armonia se i temi non si ricordano.

- I temi le vengono dunque così, come per ispirazione celeste.

Non sono un autore molto prolifico, e me ne vanto. In undici anni di carriera professionale sono giunto all'opera 33. Altri autori, che preferisco non nominare, mettono un numero d'opus a ogni piccolo pezzo. Se non arrivano all'opera 994 non sono soddisfatti. Se facessi come loro sarei all'opera 97.

- Una vera gara.

Vorrei arrivare, come Rachmaninov, all'opera 45, 46; ed essere tanto amato come lo è lui. Molti compositori oggi scrivono tanto per scrivere, per essere eseguiti. Siccome non sono esecutori, non capiscono niente. Gli si chiede un Trio per ukelele, triangolo e contrabbasso - una combinazione spaventosa - e lo scrivono pur di scrivere qualcosa. Io compongo solo per gli strumenti che mi sono congeniali. La mia unica opera interamente atonale è la Grande fuga del Preludio, corale, doppia fuga e finale per grande organo op.19. A tale atonalità giungo comunque con un'armonia di quarte, cosicché non faccia rizzare i capelli a chi la ascolta a causa delle dissonanze. Di solito per ispirarmi vado in montagna, in Abruzzo, e nelle mie lunghe passeggiate prendo con me il taccuino: i temi devono essere spontanei, non si possono costruire a tavolino. Non si può scrivere musica senza ispirazione, è musica disseccata.

- Le capita talvolta di trarre ispirazione da altri autori?

Le mie Danze sinfoniche op.26 rappresentano un omaggio a Bellini. Sono state commissionate, insieme a un'opera breve di Bussotti, per il centenario del Teatro Massimo di Catania. Ho avuto qualche perplessità: mi chiedevo come conciliare lo stile di Bellini e il mio. Ho allora usato alcuni elementi di due opere non molto conosciute: il Pirata e la Beatrice di Tenda; e li ho inseriti in piccoli interludi. La Seconda Suite, op.27, è nata sostituendo i temi belliniani degli interludi - che avevo rivestito di armonie mie proprie - con temi miei originali. Non sono un eclettico: dal Quaderno pianistico a oggi il mio stile è immutato. E così rimarrà.

- Non ravvisa la necessità di un possibile sviluppo?

Credo nelle regole armoniche che mi sono imposto. Non concepisco che un giorno si sia tonali, un altro dodecafonici. Stravinsky ci è riuscito egregiamente. Io no, non voglio. Voglio che mi si riconosca subito. Io non voglio divenire la brutta fotocopia di me stesso, che è il grande problema di chi scrive per vanità o per arrivismo; e che ci propina cose indigeste, che non dicono nulla, con temi insignificanti con i quali la musica è morta. L'uomo trova nei temi qualcosa di simile a una frase che ha significato. Janacek diceva che, quando parliamo, noi cantiamo. Abbiamo suoni più acuti, più bassi, accelerando, diminuendo, accenti. Se l'uomo non riconosce in questi suoni qualcosa in cui possa identificarsi, tutto è inutile. Dobbiamo vergognarci di dire che Ciaikovsky è bello? Ci vergognamo perché piace anche alle casalinghe? È intellettualismo da provincia: basta che una cosa sia bella per essere sospettosi, se è brutta viene subito innalzata. Pensi a Rachmaninov: quanti vermiciattoli striscianti si permettono di insultarlo! Se fosse redivivo ed entrasse in questa stanza, cadrei in ginocchio per l'ammirazione.

- Su, su: lei ne fa proprio una questione personale.

Posso vedere le cose in maniera molto diversa da certi miei colleghi, perché ho avuto un grande vantaggio rispetto a loro: una vita musicalmente internazionale. I compositori locali fanno qualche salto all'estero, poche ore per un concerto e poi tornano a casa; il caso mio, come per tanti altri musicisti dei paesi latino-americani, è quello di una formazione accademica di incredibile severità: i nostri musicisti sono preparatissimi, ma vanno in cerca di nuove esperienze all'estero. Io ho scelto gli Stati Uniti, perché trovavo molto interessanti certi pianisti americani: Browning, Van Cliburn, Janis. Là sono entrato in contatto con un mondo aperto, non con una presunzione quasi parrocchiale. Mi si può dire di non voler scrivere melodie perché non se n'è capaci o perché si manca di ispirazione, ma non si può insultare i grandi autori.

- Vuol parlarmi della sua esperienza pianistica?

In Argentina i due massimi insegnanti di pianoforte erano Scaramuzza e Fanelli, che è stato il mio maestro. Era di scuola napoletana, molto legata a quella di Longo: totale autonomia delle dita rispetto al polso e all'avambraccio; braccio sorretto da sé. Se faccio un fortissimo uso non solo le dita, ma anche il peso: non un peso che cade morto, ma distribuito da una mano armata preventivamente, che scatta ad artiglio. Le sonorità sono date dalla velocità d'attacco, non dal peso. Mi sono perfezionato negli Stati Uniti con Loesser, un pianista quasi infallibile, come il Michelangeli dei tempi migliori: conosceva tutto il repertorio a memoria e poteva suonare il Clavicembalo ben temperato in qualsiasi tonalità volesse. Veniva dalla scuola di Leschetizk e di Stokowski, estremamente digitale, polso molto basso, dita molto ricurve con una vasta articolazione, quasi clavicembalistico. Cambiava spesso il pedale, sembrava non lo usasse. E aveva una mania per il dettaglio, dove ogni nota era pesata, pensata. Non diceva di cantare: parlava dell'"illusione di cantare". Cantare al pianoforte mi fa ridere o rabbia, è uno stumento a percussione, non ci si può cantare. Puoi illuderti mentalmente, ma quel che vien fuori è un pastrocchio di note martellate. Sembra un ciabattino che mette chiodi. Invece, con strategia quasi machiavellica, bisogna escogitare la durata e il volume, la dinamica di ogni nota, il tipo d'attacco; e dopo si può dire di aver creato un legato perfetto che sembra cantato anche coi portamenti di voce.

- Sembra difficilissimo. Non succede mai che un allievo si spaventi davanti a un compito che appare così arduo?

Purtroppo qui in Italia non si può scegliere gli allievi. Cosa me ne faccio di un allievo rachitico con la tecnica di forza che insegno? Non la si può affrontare con i polsi che sembrano stuzzicadenti.

- Ha mai pensato di scrivere un'opera?

No, sono negato per il teatro. Sono un fanatico della danza, una passione che ho preso da mia madre. Invece l'opera non mi attira, non voglio essere condizionato dalla scena. Però la ascolto con gioia: sono da sempre un wagneriano. Preferisco musicare testi poetici, trattandoli come musica assoluta in una simbiosi perfetta. E il balletto! Fin da bambino facevo i passi alla sbarra. La danza moderna mi attira meno, a meno che non si rifaccia alla tradizione. Come nella mia musica, dove posso essere molto audace nelle armonie, ma sempre ho bisogno della forma. Amo tutto ciò che è frutto di disciplina, non le musiche che ricercano un puro effetto edonistico. Parlando della mia strumentazione, mi dicono a volte che è molto bella. Mi dicano piuttosto che funziona; si devono sentire tutte le voci, se poi il risultato è anche bello, tanto meglio.

- Lei si considera un pianista-compositore o un compositore-pianista?

Direi che sono prima un pianista, sono fondamentalmente una bestia da palcoscenico. Anche quando scrivo, ho l'istinto dell'esecutore. Oggi si sente raramente un compositore che sia anche concertista, una figura frequente nel passato. Cosa può capire, un compositore che non abbia mai avuto un contatto professionale con il pubblico? Allora perché scrivere per il pubblico? È inutile. È certo che la permanenza in Italia mi crea alcune perplessità. A Cleveland avevamo una media di tre, quattro concerti alla settimana; l'orchestra dell'Istituto ne dava uno, e un'opera al mese, in versione scenica. Ai tempi in cui insegnavo il direttore era Levine. Si parlava sempre di musica, si faceva musica. Qui è tutta burocrazia. Una cosa avvilente.

- Di compositori recenti proprio non mi vuol parlare.

Con quelli del dopoguerra non trovo una grande affinità. Forse un autore che mi può affascinare per la sua atmosfera di sospensione timbrica, anche se lo sento così lontano, è Ligeti. Di Schnittke ho sentito alcune cose che trovo molto affascinanti, ma non essendo io un eclettico mi è molto difficile accettare la presenza improvvisa di spunti evidentemente tonali, che appaiono quasi senza ragione. Una ragione c'è, è troppo artista perché non ci sia, perché non abbia senso ciò che fa. In altre mani sarebbe un'insalata russa di dubbio gusto.

- Lei si è dedicato tardi alla composizione professionale.

Desideravo comporre qualcosa per il mio più grande amico, Renzo Arzeni, il primo pezzo è stato scritto su un tovagliolo di carta. Ne è risultato un piccolo Mikrokosmos artistico, non didattico. Alcuni pianisti sono venuti a conoscenza del brano e hanno cominciato a metterlo in repertorio. È così che ho ritrovato la mia vena creatrice, ed è per questo che in ogni mia composizione cito tra le pieghe contrappuntistiche un tema dal Quaderno, come se volessi mantenere umanamente la sincerità e l'onestà con cui l'avevo scritto. A quel tempo potevo essere considerato un compositore inattuale. Oggi, che molti autori stanno cercando di tornare alle tradizioni del passato, sono un autore che ha recuperato una fetta di questo passato: ho tutto il diritto alla primogenitura. Non l'ho fatto per una moda, ma perché credevo fermamente in quello che facevo. E non ho tenuto conto di nient'altro, mantenendo fede a me stesso e all'amicizia che mi aveva ispirato. Ho solo voluto fare un regalo al mio amico più grande. Non pensavo a una lunga carriera di compositore.

Gregorio Nardi

 

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A cura di Renzo Trabucco: Pagina aggiornata al 21/09/2000
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