Sergio Calligaris: Pianista e Compositore
Interviste
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Il pensiero del musicista dalle sue parole

inarCASSA, Anno 31 - N.4
(Editrice inarCASSA - Maggioli Editore)
ottobre/dicembre 2003 (pag.86):

Sergio Calligaris
La logica della forma
di Paolo De Bernardin

Nel soggiorno romano del pianista e compositore Sergio Calligaris un grande pianoforte domina la scena. Seduto alla tastiera l'artista sembra accarezzare i tasti con le mani veloci che scorrono e si incrociano. Il suono che inonda la stanza e l'appartamento e le scale e il palazzo tutto è un vero e proprio amalgama di fluidità e di umori, di sensazioni che possono travolgere. Si è avvolti da quella incredibile cascata di note apparentemente semplici e spontanee, frutto invece di anni e anni di studio e di esercizio continuo e incessante.

Quello che delizia le mie orecchie è Une barque sur l'océan, tratto da Miroirs di Maurice Ravel ed esprime una fluidità incessante. Come un disegno sonoro nel quale le mani si intrecciano su cinque ottave con una velocità impressionante per ricadere in piccole estasi di riflessi liquidi e di riflessioni interiori. Cadenze ed effluvi, note dominanti che avanzano marziali e arpeggi lussureggianti che avvolgono il mondo circostante, colori che si intersecano e si inseguono, fantasie immortali di un raffinatissimo passo di Ravel irto di difficoltà e suonato tutto a memoria.

Quando si suona in maniera espressiva o brillante - dice il Maestro - sembra tutto spontaneo ma non è così. È tutto perfettamente calcolato. Ogni pianissimo o crescendo o diminuendo o rubato è matematicamente studiato e voluto. Dietro ogni nota c'è un movimento fisico. Io non lavoro sul suono in sé stesso, bensì sul movimento che produce quel suono. Lavorare semplicemente sul suono trarrebbe in inganno se non si ricordassero quei precisi movimenti da fare con la mani. Diversamente il suono non verrebbe sempre fuori allo stesso modo. Suonare è come graffiare il tasto in ogni nota, carpirne l'essenza. La mano si contrae, ma il collo e la testa e tutto il corpo rimangono di una rilassatezza totale proprio perché la forza si concentra tutta nelle mani e, se non si procede in questo modo, ecco che il corpo si sforza. Se la mano è debole insorgono tendiniti. La forza mancante si andrebbe a cercarla sui lombi ed ecco che allora si presentano patologie come la scoliosi.

È quindi pura energia, frutto della concentrazione, che va scaricata sulle mani?

Esattamente così. Io mi sono formato in un cosiddetto pianismo di forza. Il polso bloccato senza movimento articolare, con la rilassatezza della parte trapezoidale dei muscoli e la fissità del diaframma. La cupola della mano è robustissima, d'acciaio, da vero scaricatore di porto. È una morsa da presa che si avvicina ai tasti. Questo consente una grande velocità perché la mano è talmente tonificata muscolarmente con esercizi molto impegnativi e quotidiani che la tecnica di esecuzione diventa molto scattante. Una volta un collega al conservatorio cercò di scagliarmi una frecciata dicendo "voi suonate su qualsiasi pianoforte, non vi interessa di quale marca. Potete suonare anche sui sassi". Non so se fosse una battuta spregiativa ma io lo considero un bel complimento. Posso avere davanti a me un pianoforte Bechstein, Pleyel o Yamaha, a gran coda o verticale è sempre la stessa cosa nell'approccio alla tastiera. È lo stile della scuola Juilliard di New York. Questi pianisti hanno una tecnica d'acciaio, hanno la mania della forza delle dita e del polso d'acciaio perché in quel modo quando devi eseguire un tocco come un "pianissimo" ad esempio, non lo fai con il peso della mano ma con la velocità di abbassamento del tasto e, per dirla alla Pogorelich che io amo tanto, "la mano è armata prima ancora di arrivare al tasto". Quando io studio o lavoro preferisco per questo motivo dei pianoforti molto duri, molto pesanti. Un esempio. I pianoforti da concerto hanno dei tasti che pesano sui 53 o 54 grammi ciascuno. Io studio su un pianoforte i cui tasti pesano 85 grammi. E questo comporta una fatica notevole che non si concretizza nel pigiare uno o pochi tasti alla volta e lentamente ma nell'eseguire un esercizio di velocità. Se non sei abituato e allenato allora la tastiera stanca molto. Guarda Vladimir Ashkenazy, se lo vedi da vicino ha delle mani grandi, da scaricatore di porto. Sono mani rozze, muscolose come le mie, non paffute. Robuste come quelle di Horowitz, Richter, Gilels. O del grande Arthur Rubinstein. Mani ruvide che affrontano la tastiera con le dita perpendicolari ai tasti che non fanno mai delle moine. Sono dure e apparentemente rigide ma che riescono a volare sulla tastiera con enorme duttilità. È una formazione che si acquisisce con gli anni. Io però non ho mai insegnato ai miei allievi la tecnica, nonostante io sia un maniaco della tecnica. Perché quel tipo di tecnica o la impari quando sei molto giovane o non puoi farlo successivamente, perché è molto impegnativa. È tecnica muscolare che devi possedere e basta, ma solo appresa in tenera età perché è fatta di contrazioni muscolari.

La storia del Maestro Calligaris ha un percorso professionale di cinquanta anni e si dipana dalla lontana Rosario, provincia argentina per continuare in America e in Europa in prestigiosi teatri e sale da concerto, e per giungere infine in Italia dove ha insegnato in vari conservatori del Paese e dove ha portato avanti la sua arte compositiva, ricca di una cinquantina di opere. Nipote di fiulani trasferitisi in Sudamerica agli inizi del Novecento, Sergio Calligaris è vissuto sempre di musica e sin dalla più tenera età. La sua storia sembra quasi una fiaba, un racconto di incanto.

Mio padre era un ingegnere molto brillante e suonava per diletto, ma molto bene, il pianoforte, il violino e la chitarra classica. Tutti i giorni, nonostante il suo impegno professionale, si allenava al pianoforte con ogni tipo di scala. Mia madre era più una moglie che una madre ed è stata sempre vicino a lui, rendendomi indipendente ed autonomo. Il suo tempo libero era per mio padre e non per me. Lei apparteneva al mondo del balletto classico. Ed è stato proprio un balletto che mi ha spinto a scrivere musica. Da piccolo avevo due passioni che mi riempivano di felicità, il balletto e i treni. Vedere di notte un treno a vapore, col fuoco che alimentava le sue viscere dandogli forza mi faceva letteralmente impazzire. Col meccano che mio padre di aveva regalato avevo costruito una specie di teatrino immaginario per balletto. Avevo otto anni quando una sera, mentre giocavo, la radio trasmise qualcosa che mi affascinò profondamente. Non sapevo affatto cosa fosse. Fu un colpo di fulmine che mi colpì talmente che ancora oggi risento quella musica e provo le stesse emozioni. Era una pagina di Alexander Glazunov. Il balletto "Le Stagioni". Quel movimento Adagio dell'Autunno e la sua malinconia mi ha segnato la vita intera. Ho davanti agli occhi ancora adesso quella situazione. La mia stanza, il meccano, le posizioni in cui ero, dove era la radio. Ho ancora oggi lo stesso effetto. In seguito ho scoperto la tecnica superba di composizione di quel balletto e il suo contrappunto, l'armonia modulante. Da quel momento ho cominciato a scarabocchiare musica su pezzi di carta. Avevo dieci anni.

Ma erano già tre anni che lei prendeva lezioni di pianoforte.

Il pentagramma è come una tela di ragno - diceva la mia prima maestra di pianoforte - e le notine sono come ragnetti che si arrampicano". Così aveva esordito la mia insegnante alla prima lezione di pianoforte all'età di sette anni. Ma io che volevo subito suonare, sono scappato via. Mia madre che non si arrabbiava mai quella volta mi prese per un orecchio e mi riportò a casa della signorina Adelina D'Aloisio - questo era il nome della maestra - costringendomi ad andare avanti. Io voglio suonare, continuavo a dire. E dopo una settimana ero già in grado di eseguire la Sonatina di Clementi aggiungendo delle note tutte mie. L'insegnante, molto onesta, si tirò indietro e disse a mia madre di non essere all'altezza perché ero una specie di mostro sacro, un bambino prodigio.

Il primo lavoro di Calligaris fu un balletto composto all'età di dieci anni, suonato con l'accompagnamento di un'orchestra. A dodici anni eseguiva pagine molto difficoltose da Rachmaninov a Musorgskij. A quattordici debuttava al Colon di Buenos Aires. A quindici anni ebbe l'onore di effettuare la prima esecuzione sudamericana della Toccata per pianoforte e orchestra di Ottorino Respighi, sotto la direzione di Simon Blech, il delfino del grande direttore Hermann Scherchen. Tutto questo prima ancora del dottorato in alta composizione ottenuto a sedici anni, un importante traguardo che aprì al Maestro le porte degli Stati Uniti. Specializzatosi a Cleveland, Ohio in contrappunto dodecafonico, Calligaris era già cattedratico a ventun anni quando, dopo qualche tempo, intraprese una turnée europea con l'impresario Hans Hadler di Berlino e, con in cartellone, nomi del livello di Kempf, Fournier, Solti, Argerich e Weissenberg.

Maestro, come nasce in lei l'amore per un autore, la scelta di una partitura. Dalla tecnica? Dalla difficoltà della stessa?

Non posso davvero spiegarlo. È un fatto di pelle. Di solito le persone più cerebrali sono le più emotive. Quando suono non mi lascio mai andare. Tutto è calcolato. Ed inoltre, da buon latino americano, sono di sangue caliente. Per cui scrivo secondo un calcolo matematico. Non dimentichiamo che la formazione avviene da piccoli. Il mio maestro, Luis Machado, era assistente di Paul Hindemith e mi ha inquadrato in questa struttura mentale assolutamente matematica. Altri maestri furono Domingo Scarafia, Jorge Fanelli, Adele Marcus, Arthur Loesser, Guido Agosti, Nikita Magaloff. Forse sono le origini friulane della mia famiglia, forse il grande amore per la scuola slava e russa. È un modo di comporre cerebrale ma quando ci sono dentro dimentico tutta la tecnica e vengo trascinato dalla passione. L'esser disciplinati tecnicamente rappresenta la reazione alla parte alta, emotiva del nostro cervello.

Lei quando compone o esegue si sente come un artista figurativo che plasma una statua o dipinge un quadro?

No. Mentre suono non immagino mai nulla. Non mi sento uno scultore o un pittore. Ma un matematico, un architetto. È la forma e la logica della forma quello che mi interessa. Amo profondamente la natura e osservandola mi illumino, come in un'estasi, di idee musicali. Con l'orecchio assoluto trascrivo tutto quello che mi viene in testa. Le simmetrie logiche della forma, le proporzioni che sono all'interno di una partitura sono l'essenza dell'artista architetto e musicista insieme. Michelangelo Zurletti ha scritto una volta di me: "Finalmente questa simbiosi che esiste tra i momenti elegiaci e quelli tellurici, forse si risolve in un'architettura scevra da qualunque compromesso, nella sua semplicità severa. Forse li risolve la dualità estrema tra l'elemento elegiaco e quello ditirambico".

Paolo De Bernardin

Paolo De Bernardin (Cupra Marittima, 1948).
Dopo studi classici e universitari abbandona lo studio per dedicarsi totalmente alla musica.
Disc-jockey nella prima metà degli anni Settanta, presentatore e conduttore in alcune televisioni private.
Co-fondatore di una delle prima radio private in Italia (Radio 102. San Benedetto del Tronto, 1975).
Redattore della rivista "Popster", fonda nel 1980 la rivista "Rockstar", di cui è caporedattore fino al 1993.
Collabora con vari giornali e riviste ("Free Magazine", "Etnica & World Music", "Edizioni LU", "Olis", "Musica" , "La Repubblica" , "Il Quotidiano.it", "Urban" e "Inarcassa") e con le Edizioni L'Espresso per le quali è autore di "Cento Anni di storia afroamericana".
Dal 1998 è l'ideatore e direttore artistico del Festival "Radici" di San Benedetto del Tronto, collaboratore del Festival marchigiano "Il Violino e la Selce", diretto da Franco Battiato.
Collabora con la Rai dal 1978, impegnato come conduttore in vari programmi di tutte e tre le reti radiofoniche (da "Stereonotte" ad "Archivi del Suono", da "Masters" a "Jingle Bells", da "Biblioteca di Musica Leggera" a "L'altra musica", da "Il Cammello di Radio Due" a "Il Terzo Anello " di Radio Tre, da "Rai International" a "Notturno Italiano") e della TV ("Discoring", "Rai Educational", e in qualità di presentatore per Rai Sat "Satisfaction").
Collabora anche con l'emittente In Blu di Blu Sat 2000 come conduttore di "Crossover", "Jazztime", "Wonderful Land".
Dal 1996 collabora con Selezione dal Reader's Digest per il quale ha pubblicato "Giro del mondo in musica" dal 2002 con Inarcassa e dal 2003 col Club Tenco.

 

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A cura di Renzo Trabucco: Pagina aggiornata al 15/05/2004
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