BOLLETTINO SIAE, Anno 68 - N.4
(Società Italiana degli Autori ed Editori - Roma)
Luglio-Agosto 1996 (pag.192):
Intervista a Sergio Calligaris,
di Virgilio Celletti
Una composizione di Sergio Calligaris, quando la presenza del pianoforte lo coinvolge
anche come interprete, pone l'ascoltatore di fronte a un'alternativa: se apprezzare di
più Calligaris come autore o come concertista. Un dilemma del genere è oggi più che
legittimo, in quanto da tempo non si abbinano più le due attività: ma in passato era
normale che convivessero, e in qualche caso a livelli eccelsi. È persino superfluo
ripercorrere tutto un elenco di nomi che potrebbe partire da Mozart e Paganini e arrivare
fino a Busoni. In ogni caso si tratta di un ritorno al passato. Bene: Sergio Calligaris,
che quest'anno celebra, per così dire, i 45 anni di questa sua duplice attività
(debuttò nella natìa Rosario a soli dieci anni con il balletto L'eterna lotta per
pianoforte e orchestra) è in qualche modo un artista del passato che vive oggi. Rilancia
con grandi esiti la figura romantica dell'autore-interprete, salvo lasciare tutto lo
spazio che esigono agli aggiornamenti linguistici, all'evoluzione anche tecnica e
soprattutto alla grande originalità espressiva.
Il doppio ruolo è nella sua stessa biografia che in un primo momento alterna le due
attività e solo più tardi le assomma. Nato in Argentina all'inizio degli anni Quaranta,
Calligaris è vissuto a lungo negli Stati Uniti e dal 1974 è cittadino italiano. Nella
prima giovinezza si dedica alla composizione volgendo in pratica quanto aveva appreso dal
magistero illuminante di padre Luis Machado: ma è poi il concertismo che lo attrae e lo
porta ad esibirsi nelle sale più prestigiose d'Europa, delle due Americhe e dell'Africa:
gli stessi paesi, compresa l'ex Unione Sovietica, in cui un paio di decenni dopo verranno
eseguite, presso le maggiori istituzioni concertistiche e i festival, le sue composizioni.
Importante anche l'attività discografica (molti suoi dischi sono stati premiati da
riviste specializzate) e quella didattica svolta sia negli Stati Uniti (The Cleveland
Institute of Music e California State University di Los Angeles) che in Italia (i
Conservatori Statali di Napoli, Pescara e L'Aquila dove insegna attualmente). Ed è stata
proprio un'esigenza di tipo didattico che spinse Calligaris sul finire degli anni Settanta
a tornare alla composizione con Il Quaderno pianistico di Renzo, che è diventato
una sorta di colonna portante di tutta la produzione successiva. È in esso che si annida
la poetica di questo autore, la sua efficacia di maestro, ma anche la forza espressiva di
chi si propone nella doppia veste di autore e di concertista. È proprio su quest'ultimo
aspetto che abbiamo voluto coinvolgerlo.
VIRGILIO CELLETTI - Lei pensa che il compositore-interprete, l'autore che esegue
proprie musiche sia una specie estinta, oppure ritiene che abbia ragione chi vede in lei
un po' colui che rilancia a sorpresa il ruolo che fu nell'Ottocento (fermiamoci al
pianoforte) di Chopin o di Liszt e nel nostro secolo di Rachmaninov o Prokofiev?
SERGIO CALLIGARIS - Premetto che non ho alcuna intenzione di confrontarmi a Rachmaninov
o a Prokofiev, né mi chiedo se sia giusto che altri lo facciano; però non c'è dubbio
che alcuni lavori miei (e cito a mo' di esempio il Concerto per pianoforte e orchestra
op. 29 e la Sonata Fantasia op. 32 contenuti in un Cd di recente
pubblicazione), sono caratterizzati da un alto virtuosismo pianistico. In altre parole, se
l'autore vuole anche eseguire Pagine come queste, dopo averle composte, deve possedere
determinati requisiti di interprete. Un conto è strimpellare il pianoforte tra le mura
domestiche, un altro affrontare in una grande sala da concerto un grande lavoro sinfonico,
con gli occhi (e soprattutto le orecchie) del pubblico e della critica puntati addosso.
CELLETTI - Quindi lei distingue anche fra una esecuzione in pubblico e una fatta, ad
esempio, in uno studio di incisione?
CALLIGARIS - Be', non proprio; però certo mi lusinga che queste due performances siano
entrambe, come si dice, live, perché sono al massimo grado la dimostrazione di
come uno riesca a suonare. Non c'è alcuna possibilità di correzioni, di rifacimenti, di
manipolazioni a tavolino. Ma quello che io intendevo dire è che i due lavori sono
pianisticamente impervi. E allora l'autore non esce da un'alternativa del genere: o li
demanda a un altro interprete sufficientemente agguerrito, oppure deve essere egli stesso
un pianista vero, che ha già suonato tutto il repertorio ad un certo livello e in
questo caso fa anche un po' da rompighiaccio nel senso che offre egli stesso una prima
esecuzione di pagine decisamente impegnative.
CELLETTI - Insomma, come faceva Rachmaninov che incise egli stesso, per la prima
volta, i suoi Concerti
CALLIGARIS - Se proprio ci tiene al paragone, io mi arrendo. I Concerti di Rachmaninov
sono lavori di grande difficoltà come questi miei. Rispetto a lui, però, io ho la
fortuna di poter contare su una fedeltà fonica che, come in questo caso, è eccezionale.
CELLETTI - Ma non c'è pure chi sostiene che il compositore non sia sempre il
migliore interprete di se stesso
CALLIGARIS - Sì, ma solo quando l'autore non sia al tempo stesso anche un concertista
di riconosciuta bravura. Si pensa subito a Debussy e Ravel. Rachmaninov è il prototipo
della situazione opposta. I grandi pianisti che l'hanno eseguito mentre lui era ancora in
vita possono aver fatto cose egregie, non lo nego, ma la versione dell'autore rispecchia
esattamente, anche grazie a una tecnica trascendentale, ciò che egli aveva in mente. Ed
è la traduzione pratica di come egli pensava fisicamente, mentalmente e spiritualmente
quei pezzi. Molte volte noi compositori scriviamo a tavolino: quando andiamo a suonare, il
nostro fisico prende il sopravvento e ci fa eseguire il pezzo, soprattutto dal punto di
vista della dinamica, in maniera leggermente diversa da quello che si legge in partitura.
CELLETTI - Se un autore è anche un eccellente esecutore di sé, che cosa cambia nel
suo giudizio sull'interpretazione di un altro?
CALLIGARIS - Il vero compositore-esecutore ha un grande rispetto dell'interprete. E chi
compone soltanto deve averne ancora di più, perché la musica è un linguaggio morto
senza l'interprete. Dobbiamo convincerci che quell'essere umano che dà vita alla nostra
creatura ha anche il diritto di difendere la sua personalità. Non distruggerà mai la
personalità di un compositore, ma può certamente arricchirla. Lui ha il diritto di
suonare il mio Concerto con la sua tecnica: ed io, dinanzi a una interpretazione di
alto livello professionale, non mi permetterei mai di cambiare nulla. I criteri
fondamentali di una composizione devono essere salvaguardati, ma le sfumature rientrano
nella discrezionalità dell'interprete. Tutte le cose, per intenderci, che Horowitz
definiva "quello che non è scritto".
Virgilio Celletti