LA CARTELLINA, Anno XXIV - N.130
(Edizioni Musicali Europee - Milano)
Novembre 2000 (pag.62):
COLLOQUI
Intervista a Sergio Calligaris,
di Giovanni Acciai
Incontriamo il maestro Sergio Calligaris a San Giuliano Milanese, nella sede della
Nuova Carisch, all'indomani del concerto, presso la Palazzina Liberty, della prima
esecuzione della sua Toccata, Adagio e Fuga op. 36, per orchestra d'archi, sotto la
direzione di Vittorio Parisi.
Argentino di nascita ma italiano d'adozione, Sergio Calligaris è concertista di
pianoforte, compositore e docente di fama internazionale.
Le sue opere sono state eseguite in ogni parte del mondo e registrate su CD dalle maggiori
case discografiche.
Poiché conosciamo quanto grande sia il suo amore e il suo interesse nei confronti della
voce e del coro, lo abbiamo pregato di rispondere ad alcune domande per i nostri lettori.
Come è nel suo carattere, affabilissimo e disponibile, il maestro ha volentieri aderito
alla nostra richiesta.
Diamo qui di seguito il resoconto di questo colloquio.
G.A. Maestro, nella sua intensa attività creativa, lei si è cimentato con una grande
varietà di generi, forme, stili e linguaggi. Anche la voce, accanto all'amato pianoforte
ha avuto da parte sua un'attenzione tutta particolare: penso all'Ave Maria op.8 e
ai ben noti Tre madrigali op.13. Alla luce dell'esperienza maturata in questo
campo, qual è il suo rapporto e il suo interesse verso la voce; come la impiega nel
momento creativo?
S.C. Mi preme subito precisare che la prima versione dei Tre madrigali fu per
voci a cappella; solo in seguito, in occasione del "Premio Italia" del 1985, in
rappresentanza di Rai Due, preparai una versione per voci soliste, clavicembalo e organo.
La prima stesura per coro a cappella l'avevo immaginata per coro di voci femminili.
Tuttavia il mio lavoro corale di maggior respiro è il Requiem. Si tratta di una
composizione di ampie dimensioni (dura più di un'ora!) per coro misto, tre voci maschili,
due pianoforti e percussioni.
Quando tratto la musica vocale sacra impiego esclusivamente la lingua latina, in quanto
ritengo che non vi sia idioma migliore di questo per essere rivestito di musica. Non a
caso, fino al Concilio Vaticano II, la lingua latina è stata la lingua ufficiale della
Chiesa!
G.A. Condivido pienamente la sua opinione al riguardo. Se non ricordo male, anche la
sua Ave Maria op.8 per voce e pianoforte è in latino.
S.C. Certamente. Però ora vorrei continuare a parlare del Requiem. Lo composi
nel 1983-84, dopo la scomparsa di mia madre. Questo lavoro non è una Missa pro
defunctis in senso stretto, ma è piuttosto la riflessione di un musicista credente
sul tema della morte. D'altra parte, la scrittura pianistica di quest'opera è talmente
complessa, di carattere virtuosistico, per non dire trascendentale, da rendere
impraticabile qualsiasi ipotesi di esecuzione nell'ambito della liturgia.
G.A. A quali modelli si è ispirato nella stesura di quest'opera?
S.C. Verdi, innanzi tutto, ma anche Fauré. Al pari del maestro di Busseto, anch'io ho
scelto di non suddividere in sezioni il testo del Dies irae ma di racchiuderlo
tutto in un unico tempo di ampie dimensioni (oltre venti minuti di musica).
E poiché io sono un ammiratore devoto del Requiem di Gabriel Fauré, anch'esso
composto in memoria della madre, ho pensato di non finire la mia opera con i toni
drammatici del Libera me Domine, ma piottosto con quelli assai più rassicuranti,
sereni, eterei dell'In Paradisum.
Per me il Requiem è come un oratorio scenico, chiamiamolo così; rievoca
l'atmosfera drammatica del testo, tragica, struggente o consolante di altri momenti. Non
racconta, evoca. Il compositore operistico deve avere un istinto teatrale del racconto che
io sento di non possedere.
G.A. Al di là della predilezione per lo strumento di cui lei è grande virtuoso, quali
sono state le ragioni di carattere tecnico-timbrico che l'hanno spinta a inserire, alla
stregua di ciò che fa Rossini nella sua Petite Messe solennelle, due pianoforti
nell'organico strumentale del Requiem?
S.C. Ho voluto usare i pianoforti perché avevo bisogno di quel suono secco,
lancinante, metallico che soltanto due pianoforti sanno dare.
G.A. E il coro?
S.C. Polifonicamente parlando, ho trattato il coro misto in una maniera estremamente
complessa e, nel contempo, molto sofisticata. Anche se la mia produzione vocale non è
cospicua come quella riservata al pianoforte o ad altri strumenti, ritengo il Requiem
un lavoro molto impegnativo, sia per chi canta sia per chi suona.
G.A. Quali sono state le ragioni che le hanno impedito di frequentare con maggiore
assiduità la composizione di musica corale?
S.C. Nella mia vita artistica vi è un lasso temporale di circa trent'anni in cui non
ho scritto una sola riga di musica; mi sono dedicato soltanto al concertismo. In gioventù
mi sono laureato in musica e composizione a soli sedici anni. Quella formazione molto
accademica mi è però servita. Posso vantarmi di avere una scrittura tecnicamente molto
solida, forse artigianale, ma efficace. La tecnica per me non è vincolo ma stimolo per la
mia ispirazione. Allorquando un musicista possiede la tecnica, la sua fantasia subito
plasma nella maniera migliore ciò che egli vuole. In gioventù ho scritto delle liriche
su testi di grandi poeti spagnoli come García Lorca, Gustavo Bécquer e Vasquez Cey. Le
Edizioni Carisch di Milano hanno pubblicato il mio Tema e variazioni op.5 sulla
poesia Arboles (Alberi) di García Lorca per voce di basso e pianoforte. In seguito
ho usato questo tema nelle variazioni per clarinetto, violoncello e pianoforte (Tema e
variazioni op.5a) e per violino, pianoforte e violoncello (Tema e variazioni
op.5b).
Il mio senso astratto per la musica vocale non è recente. L'opera lirica, ovvero la
vocalità scenica, è l'unica espressione musicale da cui non mi sento attratto.
G.A. Nella musica vocale lei richiama echi della sua terra natia?
S.C. No. Almeno intenzionalmente. Altro discorso è dire che il contatto avuto con la
cultura latino-americana non abbia lasciato in me alcuna traccia.
Recentemente una mia cara amica e collega, ascoltando l'Agitato con fuoco del mio Concerto
per pianoforte e orchestra op.29, mi ha detto: "Ma non ti sei accorto che è un malambo?".
Era vero! Nonostante avessi cercato con ogni mezzo di non ricorrere a citazioni
folcloriche nella stesura di quest'opera, tuttavia certi ritmi di danza, specialmente
quelli ditirambici, sono insiti nella mia natura. Non ho voluto fare un malambo,
nel mio concerto per pianoforte e orchestra, ma inconsciamente l'ho fatto
Anche se io sono un italiano puro sangue (friulano da parte di padre e torinese da parte
di madre) non posso negare di essere imbevuto di cultura latino-americana e spagnola.
G.A. Vorrei ora che lei parlasse dei Tre madrigali op.13 per tre voci soliste o
coro da camera ad libitum, organo e clavicembalo. Da quale fonte poetica ha tratto il
testo?
S.C. Le poesie sono di Giovan Battista Strozzi, poeta di primo piano della grande
stagione del madrigale fiorentino. Sono tre quadri: il primo si ispira al tema della
morte, il secondo al tema del tramonto, il terzo a quello del maggio fiorito ovvero della
primavera. Con essi non racconto una storia, evoco soltanto l'atmosfera poetica del
madrigale.
G.A. Maestro, è una domanda - penso - di prammatica, ma è doveroso farla: come si
colloca lei, dal punto di vista dello stile del linguaggio nel contesto dei compositori
della sua generazione?
S.C. La ringrazio per avermi posto questa domanda. Come ho già detto, mi sono laureato
in composizione a soli sedici anni, diplomato in pianoforte addirittura a dodici anni. In
quei tempi in Argentina vi era un'avanguardia musicale piuttosto spinta che, pur
rispettando, non mi sentivo di condividere perché lontana dalla mia natura. Era un fatto
"di pelle", non di incomprensione o, peggio ancora, di ostilità. Dato che avevo
già iniziato una carriera molto solida come pianista, ho deciso di non torturarmi più,
lottando contro un mondo che mi era ostile. Fu una scelta che mi costò non poco. Scrivevo
bene e avevo talento, ma non mi identificavo in alcun modo in quel clima culturale. Era
meglio, per me, riporre la carta pentagrammata nel cassetto, chiuderlo e gettar via la
chiave. Il tempo stabilì in seguito che quella scelta così drastica non doveva essere
definitiva.
Molti anni dopo, nel 1978, con Il quaderno pianistico di Renzo, dedicato a un mio
amico fraterno, ho ripreso a scrivere musica e l'ho fatto a modo mio.
Se io dovessi descrivermi mi definirei non tanto un neoromantico, ovviamente non inteso
nel significato che oggi si attribuisce a questo termine, ma caso mai un neoclassico, le
cui forme contrappuntistiche si rifanno al più rigoroso Bach. Un Bach filtrato, però,
dalla scuola compositiva alla quale mi sento di appartenere: quella che deriva da
Hindemith, per intenderci. Rigore formale, contrappuntistico, tecnico; musica di spessore
che nulla concede all'effetto. Ecco perché per me sarebbe molto difficile comporre
un'opera lirica. Semmai mi sento più portato per il balletto. Ma anche a Brahms mi volgo
volentieri. Non a Bruckner, però. Il mio stile infatti è più conciso, più stringato ed
essenziale. E poi, sostanzialmente, non sopporto certe estenuate dilatazioni wagneriane.
G.A. È innegabile però che Wagner, a partire dal Tristano, abbia dato un
contributo determinante al rinnovamento del linguaggio armonico e delle sue funzioni
strutturali.
S.C. Non v'è dubbio. Per quanto mi riguarda, il mio lessico armonico è orientato
verso una "politonalità" di accordi alterati, usata in maniera tale da tener
sempre conto di sequenze tensive e distensive. Ciò significa che dietro a questo modo di
procedere vi è una base accademica molto solida; essa mi permette di realizzare in piena
libertà i più audaci agglomerati armonici, senza per questo cadere nel formalismo o
nell'astrattismo.
G.A. Dunque, sapere da dove partire, che strada fare
S.C.
come raggiungere la meta. Questo lo si sente nei miei lavori e anche nel Requiem.
Credo in una strumentazione e in una vocalità che si rifanno all'idea di
Rimskij-Korsakov, il quale affermava: "Usate sempre gli strumenti e le voci nei loro
registri più comodi".
G.A. Questo dovrebbe essere la condicio sine qua non per ogni compositore degno
di questo nome. Un compositore può definirsi tale soltanto quando dimostra nei fatti,
ovvero attraverso le opere che scrive, di conoscere a fondo lo strumento al quale rivolge
la sua attenzione.
S.C. Sacrosante parole. Io posso capire e apprezzare sotto il profilo artistico le
meravigliose colorature di Donizetti o di Rossini. Però mi chiedo: è per forza
necessario costringere i cantanti a salire fino al mi bemolle sopracuto? D'accordo: si
tratta di una cosa bella, però non le pare un po' circense? È così struggente ascoltare
i Lieder di Schubert, di Schumann o le liriche di Gabriel Fauré, in cui la voce
canta sempre nel registro più consono alle sue possibilità e la tecnica vocale non viene
messa a repentaglio e non deve tentare di fare a tutti i costi cose che sono antivocali
per natura. E non mi faccia parlare della letteratura vocale contemporanea
Anche il virtuosismo pianistico che inserisco nei miei lavori è rivolto, per forza di
cose, a un pianista di indiscusse capacità tecniche. Però, questo virtuosismo non è
artificioso, soltanto immaginato nella mente. No, è fisiologicamente naturale. Quando si
suona Liszt, Rachmaninov o Prokofiev, anche se certi loro passaggi sono difficilissimi,
sono però tecnicamente accessibili. Se si ha una buona tecnica, si riesce a superarli. Vi
sono autori invece che, pur scrivendo cose meno difficili di Rachmaninov, non riescono a
farle rendere pianisticamente. Perché? Ma perché sono antifisiologiche. Specialmente una
certa avanguardia ha distrutto le voci; ha dimenticato l'"espressività". Io
sento certe note, capisco sì, certe intenzioni di certe formule; ma dopo aver sentito, e
capito tutto questo dal punto di vista tecnico, cos'altro rimane? Nulla. Questa musica non
è né triste, né allegra, né introversa, né estroversa, né solare, né crepuscolare:
non è nulla. Si tratta di un sacco di note. E, qualche volta, anche scritte nemmeno
troppo bene
In un certo senso, alcuni autori hanno dimenticato che significhi entrare in contatto con
la voce. La voce è il frutto più straordinario che la natura ci abbia dato. La voce è
umana, sta nel corpo, non è un violino, non è un pianoforte. È umana! Perché dobbiamo
allora snaturarla, facendole fare trilli o staccati che può fare meglio un fagotto o un
clarinetto o balzi enormi che rovinano le corde vocali?
G.A. Se è per questo, vorrei capirlo anch'io. Mi fa piacere che lei lo abbia detto con
chiarezza, senza remore o giri di parole.
S.C. Come ho già detto, io non mi ritengo un compositore che abbia destinato alla voce
la maggior parte dei suoi sforzi creativi. Però, quando nelle mie opere impiego la voce,
lo faccio sempre con naturalezza e nel massimo rispetto delle sue peculiarità tecniche ed
espressive.
Una voce deve funzionare come una voce. Se si suona il pianoforte si deve pensare che è
uno strumento percussivo; può cantare, illudere di cantare grazie alla strategia suprema
del suono di ciascuna nota in rapporto alla precedente o alla seguente o al tenere una
nota non legata un poco più del necessario e a lasciarla in ritardo per creare il senso
di un portamento. Si tratta però sempre di un portamento percussivo. Non si può scrivere
per pianoforte senza mai pensare che è uno strumento percussivo. La voce invece è una
cosa misteriosa e delicatissima; non è una macchina come il pianoforte; non possiamo
violentarla gratuitamente.
Un urlo nella notte, una protesta contro la società: questo dicono i compositori. Ma non
è vero: quello è l'urlo di disperazione perché si sta distruggendo un organo vocale.
G.A. Maestro, dopo queste ferventi riflessioni sulla voce e sull'opportunità di
trattarla sempre nella maniera più congrua all'interno del progetto compositivo, le
chiedo se ha in cantiere qualche lavoro corale che può già annunciare ai lettori de
"La Cartellina".
S.C. Recentemente ho avuto l'occasione di conoscere e di parlare a lungo con
l'Arcivescovo di Ferrara, monsignor Carlo Caffarra. È stato lui a suggerirmi di musicare
il testo dell'Ave verum, un testo di struggente dolcezza ma anche di lancinante
tensione e incontenibile drammaticità.
Io sono un devoto della Madonna. Sono un uomo di fede, di una fede non bigotta che accetta
supinamente i dogmi, ma che li medita e li rielabora con personalità e con umanità. Sono
un uomo di fede ma non per questo credo in una fede supina che accetta tutto senza
ragionarci sopra, senza cercare di capire e di contestualizzare nella realtà che mi
circonda.
G.A. Per quale organico immagina questo lavoro?
S.C. Per coro misto a quattro voci e pianoforte.
G.A. Non oso chiederle di più. Ma sono certo che sarà un lavoro importante e avrà il
suo peso nel contesto della letteratura corale del nostro tempo, soprattutto di quella
italiana, così avara di capolavori in questo settore.
S.C. Grazie. Cercherò di non deludere questa attesa.