Sergio
Calligaris: Pianista e Compositore
Il pensiero del musicista dalle sue parole |
LA CARTELLINA, Anno
XXIV - N.130 Incontriamo il maestro Sergio Calligaris a San Giuliano Milanese, nella sede della
Nuova Carisch, all'indomani del concerto, presso la Palazzina Liberty, della prima
esecuzione della sua Toccata, Adagio e Fuga op. 36, per orchestra d'archi, sotto la
direzione di Vittorio Parisi. G.A. Maestro, nella sua intensa attività creativa, lei si è cimentato con una grande varietà di generi, forme, stili e linguaggi. Anche la voce, accanto all'amato pianoforte ha avuto da parte sua un'attenzione tutta particolare: penso all'Ave Maria op.8 e ai ben noti Tre madrigali op.13. Alla luce dell'esperienza maturata in questo campo, qual è il suo rapporto e il suo interesse verso la voce; come la impiega nel momento creativo? S.C. Mi preme subito precisare che la prima versione dei Tre madrigali fu per
voci a cappella; solo in seguito, in occasione del "Premio Italia" del 1985, in
rappresentanza di Rai Due, preparai una versione per voci soliste, clavicembalo e organo.
La prima stesura per coro a cappella l'avevo immaginata per coro di voci femminili. G.A. Condivido pienamente la sua opinione al riguardo. Se non ricordo male, anche la sua Ave Maria op.8 per voce e pianoforte è in latino. S.C. Certamente. Però ora vorrei continuare a parlare del Requiem. Lo composi nel 1983-84, dopo la scomparsa di mia madre. Questo lavoro non è una Missa pro defunctis in senso stretto, ma è piuttosto la riflessione di un musicista credente sul tema della morte. D'altra parte, la scrittura pianistica di quest'opera è talmente complessa, di carattere virtuosistico, per non dire trascendentale, da rendere impraticabile qualsiasi ipotesi di esecuzione nell'ambito della liturgia. G.A. A quali modelli si è ispirato nella stesura di quest'opera? S.C. Verdi, innanzi tutto, ma anche Fauré. Al pari del maestro di Busseto, anch'io ho
scelto di non suddividere in sezioni il testo del Dies irae ma di racchiuderlo
tutto in un unico tempo di ampie dimensioni (oltre venti minuti di musica). G.A. Al di là della predilezione per lo strumento di cui lei è grande virtuoso, quali sono state le ragioni di carattere tecnico-timbrico che l'hanno spinta a inserire, alla stregua di ciò che fa Rossini nella sua Petite Messe solennelle, due pianoforti nell'organico strumentale del Requiem? S.C. Ho voluto usare i pianoforti perché avevo bisogno di quel suono secco, lancinante, metallico che soltanto due pianoforti sanno dare. G.A. E il coro? S.C. Polifonicamente parlando, ho trattato il coro misto in una maniera estremamente complessa e, nel contempo, molto sofisticata. Anche se la mia produzione vocale non è cospicua come quella riservata al pianoforte o ad altri strumenti, ritengo il Requiem un lavoro molto impegnativo, sia per chi canta sia per chi suona. G.A. Quali sono state le ragioni che le hanno impedito di frequentare con maggiore assiduità la composizione di musica corale? S.C. Nella mia vita artistica vi è un lasso temporale di circa trent'anni in cui non
ho scritto una sola riga di musica; mi sono dedicato soltanto al concertismo. In gioventù
mi sono laureato in musica e composizione a soli sedici anni. Quella formazione molto
accademica mi è però servita. Posso vantarmi di avere una scrittura tecnicamente molto
solida, forse artigianale, ma efficace. La tecnica per me non è vincolo ma stimolo per la
mia ispirazione. Allorquando un musicista possiede la tecnica, la sua fantasia subito
plasma nella maniera migliore ciò che egli vuole. In gioventù ho scritto delle liriche
su testi di grandi poeti spagnoli come García Lorca, Gustavo Bécquer e Vasquez Cey. Le
Edizioni Carisch di Milano hanno pubblicato il mio Tema e variazioni op.5 sulla
poesia Arboles (Alberi) di García Lorca per voce di basso e pianoforte. In seguito
ho usato questo tema nelle variazioni per clarinetto, violoncello e pianoforte (Tema e
variazioni op.5a) e per violino, pianoforte e violoncello (Tema e variazioni
op.5b). G.A. Nella musica vocale lei richiama echi della sua terra natia? S.C. No. Almeno intenzionalmente. Altro discorso è dire che il contatto avuto con la
cultura latino-americana non abbia lasciato in me alcuna traccia. G.A. Vorrei ora che lei parlasse dei Tre madrigali op.13 per tre voci soliste o coro da camera ad libitum, organo e clavicembalo. Da quale fonte poetica ha tratto il testo? S.C. Le poesie sono di Giovan Battista Strozzi, poeta di primo piano della grande stagione del madrigale fiorentino. Sono tre quadri: il primo si ispira al tema della morte, il secondo al tema del tramonto, il terzo a quello del maggio fiorito ovvero della primavera. Con essi non racconto una storia, evoco soltanto l'atmosfera poetica del madrigale. G.A. Maestro, è una domanda - penso - di prammatica, ma è doveroso farla: come si colloca lei, dal punto di vista dello stile del linguaggio nel contesto dei compositori della sua generazione? S.C. La ringrazio per avermi posto questa domanda. Come ho già detto, mi sono laureato
in composizione a soli sedici anni, diplomato in pianoforte addirittura a dodici anni. In
quei tempi in Argentina vi era un'avanguardia musicale piuttosto spinta che, pur
rispettando, non mi sentivo di condividere perché lontana dalla mia natura. Era un fatto
"di pelle", non di incomprensione o, peggio ancora, di ostilità. Dato che avevo
già iniziato una carriera molto solida come pianista, ho deciso di non torturarmi più,
lottando contro un mondo che mi era ostile. Fu una scelta che mi costò non poco. Scrivevo
bene e avevo talento, ma non mi identificavo in alcun modo in quel clima culturale. Era
meglio, per me, riporre la carta pentagrammata nel cassetto, chiuderlo e gettar via la
chiave. Il tempo stabilì in seguito che quella scelta così drastica non doveva essere
definitiva. G.A. È innegabile però che Wagner, a partire dal Tristano, abbia dato un contributo determinante al rinnovamento del linguaggio armonico e delle sue funzioni strutturali. S.C. Non v'è dubbio. Per quanto mi riguarda, il mio lessico armonico è orientato verso una "politonalità" di accordi alterati, usata in maniera tale da tener sempre conto di sequenze tensive e distensive. Ciò significa che dietro a questo modo di procedere vi è una base accademica molto solida; essa mi permette di realizzare in piena libertà i più audaci agglomerati armonici, senza per questo cadere nel formalismo o nell'astrattismo. G.A. Dunque, sapere da dove partire, che strada fare S.C.
come raggiungere la meta. Questo lo si sente nei miei lavori e anche nel Requiem. G.A. Questo dovrebbe essere la condicio sine qua non per ogni compositore degno di questo nome. Un compositore può definirsi tale soltanto quando dimostra nei fatti, ovvero attraverso le opere che scrive, di conoscere a fondo lo strumento al quale rivolge la sua attenzione. S.C. Sacrosante parole. Io posso capire e apprezzare sotto il profilo artistico le
meravigliose colorature di Donizetti o di Rossini. Però mi chiedo: è per forza
necessario costringere i cantanti a salire fino al mi bemolle sopracuto? D'accordo: si
tratta di una cosa bella, però non le pare un po' circense? È così struggente ascoltare
i Lieder di Schubert, di Schumann o le liriche di Gabriel Fauré, in cui la voce
canta sempre nel registro più consono alle sue possibilità e la tecnica vocale non viene
messa a repentaglio e non deve tentare di fare a tutti i costi cose che sono antivocali
per natura. E non mi faccia parlare della letteratura vocale contemporanea
G.A. Se è per questo, vorrei capirlo anch'io. Mi fa piacere che lei lo abbia detto con chiarezza, senza remore o giri di parole. S.C. Come ho già detto, io non mi ritengo un compositore che abbia destinato alla voce
la maggior parte dei suoi sforzi creativi. Però, quando nelle mie opere impiego la voce,
lo faccio sempre con naturalezza e nel massimo rispetto delle sue peculiarità tecniche ed
espressive. G.A. Maestro, dopo queste ferventi riflessioni sulla voce e sull'opportunità di trattarla sempre nella maniera più congrua all'interno del progetto compositivo, le chiedo se ha in cantiere qualche lavoro corale che può già annunciare ai lettori de "La Cartellina". S.C. Recentemente ho avuto l'occasione di conoscere e di parlare a lungo con
l'Arcivescovo di Ferrara, monsignor Carlo Caffarra. È stato lui a suggerirmi di musicare
il testo dell'Ave verum, un testo di struggente dolcezza ma anche di lancinante
tensione e incontenibile drammaticità. G.A. Per quale organico immagina questo lavoro? S.C. Per coro misto a quattro voci e pianoforte. G.A. Non oso chiederle di più. Ma sono certo che sarà un lavoro importante e avrà il suo peso nel contesto della letteratura corale del nostro tempo, soprattutto di quella italiana, così avara di capolavori in questo settore. S.C. Grazie. Cercherò di non deludere questa attesa.
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Inizio |
A cura di Renzo Trabucco: Pagina aggiornata al 01/05/2001
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