terzapagina - N.2
(Sovera Editore)
Ottobre 2004 (pag.34):
musica e letteratura
Intervista con Sergio Calligaris
Franco Campegiani conversa con il brillante
e noto musicista di livello internazionale
Raggiungo il Maestro Sergio Calligaris a Rocca di Mezzo, verdeggiante località
dell'Abruzzo, dove è solito passare i mesi estivi in una sorta di ritiro creativo tra i
monti. Mi accoglie festoso nella riposante sede Madonna Delle Rocche, dove alberga.
Il Maestro Calligaris è un musicista di fama internazionale, un compositore originale, un
esecutore brillante, noto in tutto il mondo. L'intervista è per i lettori di "Terza
Pagina" su argomenti di grande interesse estetico, filosofico e musicale.
I suoi critici parlano spesso dell'incrocio fra motivi elegiaci e motivi
ditirambici, a proposito delle sue composizioni musicali. Questa compresenza di grandi
entusiasmi e improvvise malinconie, di passioni intense e di glaciali contemplazioni, ha
moventi catartici o è il frutto di un puro e semplice impulso magmatico ed esplosivo
fondato sull'osmosi fra essere e nulla, fra vita e morte, fra finito ed infinito?
Potremmo parlare anche dell'osmosi tra bene e male, o dell'incontro materia-spirito,
cui lei dedica, nei suoi scritti, moltissime attenzioni. Sono fusioni armoniche,
contrappuntistiche. I due elementi nascono in contemporanea. Non c'è la sublimazione di
una sensazione, perché la sensazione nasce già sublimata alla partenza. Se io evoco un
senso guerriero, un senso eroico, un senso aggressivo, non è che mentre creo sto
tramutando uno stato d'animo in qualcosa di superiore o di astratto. Le due funzioni
(idealistica e sensitiva) nascono perfettamente integrate una nell'altra. Non c'è un
ordine gerarchico, nel senso che quella spirituale sia superiore qualitativamente
all'altra. Per me già nasce primordialmente organizzata e non mi pongo altri problemi.
L'accetto così.
Mi corregga se sbaglio. La sua è una poetica dell'energia. Come tale, è molto
diversa dalle poetiche formalistiche dei nostri tempi, nichilistiche ed
antirappresentative, ma è anche lontanissima dagli stilemi idealistici del passato, di un
contenutismo statico, incompatibile con l'incontenibilità (ineffabilità) della pienezza
d'essere evocata dalla sua arte musicale. È così?
Esatto. Voglio però precisare che gli stilemi del passato, avendo io ricevuto una
formazione accademica molto rigorosa, stanno radicati in me come una seconda natura. La
forza primordiale (o "tellurica", per usare un termine a lei caro) nasce
autoincatenata dal proprio intelletto in una forma tecnicamente e razionalmente
consapevole. Ecco l'incontro tra finito e infinito, fra razionalità e spinta inconscia.
L'energia che io evoco non è un caos, ma nasce autoorganizzata in forme logiche e
coerenti. Spesso si confonde l'energia primordiale con il disordine e con il cattivo
gusto, ma non è così. Razionalità e passionalità sembrano agli antipodi, ma si possono
fondere.
Siamo giunti al concetto filosofico dell'armonia dei contrari. Forse è per questo
che, ascoltando la sua musica, io, affascinato dall'impervia figura del grande Eraclito,
ho la sensazione di trovarmi a casa. Sono armonie non certo statiche, ma dinamiche e
vitali. Sono incendi glaciali, panorami polari e atmosfere fiammeggianti.
Le cito i quattro versi conclusivi della sua poesia Irrompe il sole: "Al solare
bagliore/al barbaro alato canto/maestoso s'infiamma/l'amplesso del bene e del male".
Qui lei coglie poeticamente ciò che trova anche nella mia musica: la perfetta fusione dei
due elementi opposti che si integrano tra di loro. Mi lasci analizzare ancora le sue
poesie che io trovo sorprendentemente affini al mio mondo musicale. Lei scrive (Strappa
me, questo vento): "Dalle mie vene schizza/il sangue verso il cielo/e in groppa al
vento, io fulgido guerriero/corro sfrenato incontro a me". C'è anche qui il senso di
una dualità destinata a fondersi. Le leggo un altro frammento, da Ginestre esplodono:
"Ho dentro un grido selvaggio/una bomba inesplosa di vita/un tuono che si srotola/da
distanze sconosciute". È la potenza magmatica che lei trova nella mia musica.
Che cosa pensa della dodecafonia? Il fronte della musica mondiale sembra oggi diviso
in due: da un lato coloro che tentano di salvare l'antico principio della tonalità;
dall'altro coloro che traggono le più estreme conseguenze dalla riforma wagneriana. Qual
è il suo punto di vista? Una poetica che voglia essere dissonante può davvero percorrere
il binario a senso unico dell'atonalità? Non è questo un nuovo schematismo?
Qui tocchiamo un tasto straordinariamente interessante. Parliamo di Wagner, con la
sua armonia cromatica che è il continuo mutamento dell'armonia tradizionale. Questo
significa che, mentre la tonalità tradizionale ha un punto di partenza e un punto di
ritorno, in Wagner non c'è un punto di ritorno. È una partenza continua per sempre nuovi
cicli di armonie, sino a costituire quella che si chiama la musica, o melodia infinita.
Da qui la dodecafonia, che non è più, come in Wagner, un'armonia in continuo divenire
(pensiamo alle onde di un fiume), ma addirittura una nota musicale autonoma che genera in
continuazione se stessa. Questo provoca nell'ascoltatore, anche se preparato musicalmente,
un senso di sconcerto, perché perde il senso della direzione e smarrisce l'orientamento.
C'è però chi vuol conservare l'antico principio della tonalità. Non le sembra
troppo regressivo questo? Non si potrebbe tentare di riassumere il contrasto tra tonalità
ed atonalità in un unico fatto espressivo? Eccoci tornati all'amplesso tra finito ed
infinito, tra vita e morte...
Si può cercare di unire la dissonanza che genera l'atonalità con la consonanza che
genera la sovrapposizione di accordi tradizionali tonali.
Ed ecco la simbiosi perfetta dei due poli. Si può fare, ed è una cosa affascinante
perché evoca quella latente ambiguità che io definirei meglio "mistero della
vita". Come diceva Debussy, non esiste la dissonanza senza la consonanza, il forte
senza il piano, il lento senza il veloce.
Lei ha tentato questo nella sua produzione artistica?
Sì, certamente. La mia musica è imperniata sulla complessità armonica. In diverse
opere mie, certi momenti sono vicini alla tonalità, ma ho scritto lavori (come per
esempio "Preludio, corale, doppia fuga e finale per grande organo, op.19") dove
l'andamento è atonale. Nella "Sonata opera 38", dedicata al grande Vladimir
Ashkenazy, per pianoforte e clarinetto, la parte centrale contiene una fuga atonale a
cinque voci. Però le persone che ascoltano la mia musica atonale dicono: "Ma sembra
tonale!".
Come mai questo? C'è una tale conoscenza degli elementi atonali, da venire usati in
maniera che all'ascolto sembrano consequenziali e non più fini a se stessi in ogni nota.
Questo naturalmente è un dono, ma è anche il frutto di una forte conoscenza tecnica. La
mia musica, come del resto la sua poesia, è anche il frutto di una mente severa,
spietatamente logica e razionale, che è quella che permette di legare e armonizzare le
opposizioni tra di loro.
Io sono così non soltanto come compositore, ma anche come esecutore della musica altrui.
Non tutti gli interpreti presentano questi due estremi, perché non sono sufficientemente
creativi. Certi musicisti, specialmente tardoromantici, come Rachmaninov o Mahler,
pretendono questa complessità. Mahler addirittura, nelle sue grandi sinfonie alterna
momenti di una rielaborazione armonica e melodica assai sofisticata a dei momenti in cui
introduce dei temi prettamente popolari.
Ci parli della sua formazione musicale in rapporto alla sua creatività.
La mia formazione compositiva è cominciata a nove anni. Ero un ragazzino ed ho
avuto la fortuna di maestri sempre dogmatici che si sono imposti brutalmente alla mia
personalità. Allora, o uno soccombe, o uno si libera, ma se si libera può farlo solo
apprendendo nello stesso tempo la tecnica solida che soltanto le persone dogmatiche hanno.
La mia formazione tecnica è passata su questo rigore formale, spietatamente logico, che
però ha dovuto fare i conti con una natura selvaggia e primordiale insopprimibile.
Sta in questa capacità di equilibrare gli opposti la caratteristica di ogni creatività.
Ed è una qualità che trovo anche nella sua poesia, dove c'è un uso della parola molto
ritmico. "Irrompe il sole", ad esempio, è una sonata per pianoforte, una
sinfonia per grande orchestra. C'è il ritmo, la forma rigorosa, il crescendo e il
diminuendo.
Altrove lei ha scritto che non c'è nulla di più creativo della terra, che in
continuazione nega ed afferma, uccide e rigenera con immensa vitalità. È ancora lei ad
avere scritto che nella natura c'è un senso immenso di armonia, finanche nelle sue
manifestazioni più violente, come i terremoti e le inondazioni. Ed è sempre lei ad aver
detto che la terra non è un sasso gettato nello spazio, ma un'intelligenza cosmica,
un'energia prorompente ed infinita. Sono affermazioni che mi trovano perfattamente in
sintonia.
Lei si attiene al principio del cosiddetto "pianismo di forza". Cos'è?
La scuola alla quale appartengo è quella argentina. Abbiamo due grandi scuole in
Argentina: quella napoletana di fine Ottocento, che è di una tecnica brillante digitale,
e quella che io ho acquisito con il mio primo maestro, Jorge Fanelli, che veniva dalla
grande scuola polacca. È, questa, la scuola della fissità del polso e della grande forza
digitale. C'è poi stata l'esperienza americana, proveniente dalla grande scuola russa di
fine Ottocento, che fa del pianista un atleta.
In pratica non si suona con il peso delle dita, ma con la velocità di abbassamento del
tasto. È un movimento al rallentatore, ma sino in fondo al tasto, come se uno innestasse
un pugnale nella carne. Per andare a fondo lentamente, bisogna andare con più controllo
e, di conseguenza, con più forza muscolare. Immaginiamo il camminare lento di una pantera
o di una tigre. I muscoli sono in tensione. Più lenta cammina, più energia usa. Poi,
ovviamente, lo scatto è ancora più veloce. Per arrivare a ciò ci sono degli esercizi,
come quelli di un grande atleta.
Ha visto le mani che aveva il grande Rubinstein? Sembrano quelle di uno zappatore. E
quelle di Emil Ghilels? Sembrano quelle di un contadinotto delle steppe della Russia.
Però, che bel suono! Il suono della forza controllata! Invece le mani debili potrebbero
rischiare a volte di venire sopraffatte dalla sonorità di un'orchestra di novanta o cento
professori e nei concerti di solidissima struttura tecnica, come quelli di Ciajkowskij, di
Brahms, o di Rachmaninov.
Si può certamente contraddire ciò che sto dicendo, ma io penso che, mentre il pianismo
debole limita, perché non riesce ad eseguire comodamente gli autori di tecnica pesante,
tipo Prokofieff o Bartok, il pianista di forza non ha limitazioni perché riesce benissimo
anche con autori di carattere più trasparente, quali Mozart o Scarlatti.
Quali sono le sue ascendenze artistiche e quali i musicisti che più ama eseguire
nei concerti che tiene in tutto il mondo?
Il mio autore preferito in assoluto è Schumann. Lui parlava di se stesso come di
Florestan ed Eusebius. Ecco i due estremi: Florestan rappresenta l'irruenza, lo slancio
virile, fiducioso di se stesso; Eusebius rappresenta la parte contemplativa, meditativa e
anche misteriosa. Adesso mi rendo conto perché Schumann è stato sempre il mio autore
preferito. E lui aggiungeva: "C'è una terza anima in me: il maestro raro", che
è la sapienza della mente.
O forse la musa, il genius, lo spirito, l'arcano, l'intelligenza cosmica di cui si
parlava prima?
Insomma, quello che fa combaciare l'energia violenta di Florestan con la
contemplatività di Eusebius. Io amo molto suonare Schumann. Mi sta come l'anello al dito.
Poi amo moltissimo autori come Haydn, Chopin e Brahms. E che dire ancora di Rachmaninov?
L'abbina a me anche il fatto che era un devoto interprete della musica altrui. La piegava
talmente a modo suo, che un grande critico di New York ebbe a dire: "Io non vado ad
ascoltare Rachmaninov che suona Beethoven, ma vado a sentire Beethoven ricreato da
Rachmaninov".
Poi mi piacciono i due autori dell'Impressionismo francese, Debussy e Ravel, che io non
amo considerare, come di solito avviene, un magma di soli indefiniti, ma alla stregua di
un quadro di Pissarro, con quel grande senso panoramico e quel cromatismo commovente. Man
mano che ci avviciniamo al dipinto, vediamo una quantità infinita di piccoli tocchi di
pennello. È allo stato puro il colore, ed il cromatismo viene dalla fusione panoramica di
questi elementi autonomi. Anche Gauguin usava colori ben distinti, non integrati o
sporchi. Questo equivale, in musica, alla fusione fra tonalità ed atonalità.
Debbo dire che non mi trovo molto bene con la musica cosiddetta d'avanguardia,
sperimentale. Io amo le cose consolidate. La natura mia è un po' militaresca. Non ama il
disordine, l'imprevedibile, potrei dire l'utopia anarchica. Tutto questo lo rispetto, ma
non fa per me. Io amo le cose razionali, purché reggano il confronto con quello che
abbiamo detto prima: il magmatico, l'esplosivo, il trascinante, il primitivo.
Prima lei ha fatto riferimento a dei pittori. Ci sono altri Maestri dell'arte
figurativa che ama particolarmente?
Sì, senz'altro. Le faccio altri esempi, nell'ambito dell'Astrattismo: Kandinsky e
Mondrian. Di quest'ultimo amo la logicità strutturale, la spietatezza del tratto
geometrico. Allo stesso tempo mi sento attratto dal continuo senso del movimento, dal
colore in evoluzione fantastica di Kandinsky. Io cerco di unire i due linguaggi in
un'unica espressione artistica. Musicale ovviamente.
Franco Campegiani vive a Marino, nei Castelli Romani, dove è nato nel settembre
1946. Ha pubblicato nella collana di Mario dell'Arco due libri di poesie: "L'ala e la
gruccia" (Roma 1975) e "Punto e a capo" (Roma 1976). Sempre a Roma, con
l'editrice Rossi e Spera, ha pubblicato nel 1986 il testo poetico "Selvaggio
pallido", contenente disegni del Maestro Umberto Mastroianni. Inoltre, nel 1989, ha
pubblicato con l'editrice Ibiskos di Firenze, in una collana inaugurata da Domenico
Rea, "Cielo amico", raccolta di poesie a sfondo cosmico. Del 2000 è la silloge
"Canti tellurici" edita da Sovera Multimedia (Roma).
Nel campo delle arti visive, ed in particolare per la scultura, ha ideato e diretto due
edizioni della Biennale Internazionale della Pietra "Città di Marino", svoltesi
in questa località nel 1977/78 e nel 1980/81. Membro di giuria in premi letterari,
Campegiani ha curato rassegne di poesia ed ha presentato criticamente scrittori, filosofi,
poeti ed eminenti personalità del mondo artistico (Elio Filippo Accrocca, Dario Bellezza,
Antonio Bolettieri, Aldo Calò, Mario dell'Arco, Bruno Fabi, Salvatore Fiume, Lorenzo
Guerrini, Umberto Mastroianni, Aldo Onorati, Fortunato Pasqualino, Sergio Quinzio, Dario
Rezza, Vito Riviello, Giorgio Romano, ed altri).
In campo giornalistico, Campegiani ha svolto un'intensa attività presso emittenti
radiofoniche e testate di interesse locale. Inoltre suoi articoli di vario interesse
umanistico sono comparsi sulla stampa specializzata: "Rinnovamento",
"Fermenti", "La cultura nel mondo", "Next",
"L'inventario", "Castelli Romani", "Terza pagina". A lui
risalgono iniziative ecologiche e promozioni di convegni aventi per oggetto alimentazione,
ambiente e agricoltura, nonché la fondazione di manifesti e cenacoli culturali, quali il
Movimento Culturale "Chiaro Scuro", allo scopo di stimolare un risveglio della
coscienza autocritica.
Nel 2003 ha organizzato il Premio Internazionale di Cultura "Città di Marino"
per il saggio inedito ed altre opere dell'ingegno, indetto dalla Banca di Credito
Cooperativo "San Barnaba" di Marino. Dirige la collana "Labirinti e
tracciati" di Sovera Multimedia Editrice. In campo strettamente filosofico ha
pubblicato con l'editore Armando nella primavera 2001, un saggio dal titolo
"La teoria autocentrica, analisi del potere creativo", con intendimenti
diametralmente opposti all'egocentrismo. Prefato da Bruno Fabi, caposcuola
dell'Irrazionalismo sistematico, questo saggio è stato considerato "un'opera
rivoluzionaria ed altamente innovativa nel campo della filosofia contemporanea"
(così Giorgio Romano).
Numerosi i riconoscimenti: Premio di Poesia "Castelli Romani" 1974; Premio
Presidenza del Consiglio dei Ministri 1976; Premio "Lions Club" 1982; Premio
Letterario "Gotto d'Oro" 1987; Premio Letterario "Gabriele D'Annunzio"
1988; Premio "Lucus Feroniae" 1990; Premio Internazionale "Emily
Dickinson" 2001; Premio CAPIT 2001; Premio "Padus Amoenus" 2003; Premio
"Eschilo a Gela" 2003; Premio "San Valentino" 2004.
Sulla sua poesia hanno espresso giudizi favorevoli, tra gli altri: Giorgio Barberi
Squarotti, Fortunato Bellonzi, Carmelo Cappuccio, Mario dell'Arco, Mario Lunetta, Leo
Magnino, Giuliano Manacorda, Aldo Onorati, Mario Petrucciani, Vito Riviello, Rosalma
Salina Borello, Cesare Vivaldi e Luigi Volpicelli.